Cpt di Torino, tra clandestini ed ex detenuti

La Repubblica, 21 giugno 2008 – Niccolò Zancan
Questa sera riso, piselli e frittata. Poi c’è la partita. “Io tifo per l’Italia – dice Abdelkarim Sellhami, 19 anni, canottiera rossa sudata – sono cresciuto qui. Non mi resta nessuno in Marocco, non ho neanche la casa. Questa è mia moglie italiana, guarda. Ecco il libretto di matrimonio. Ci siamo sposati in comune a Torre Pellice. Il problema è che abbiamo litigato, non ho più la convivenza. Per questo mi hanno portato al centro”.
All’ingresso bisogna fare subito una scelta. Nelle gabbie non è ammesso il telefono con videocamera integrata. Si può lasciare in custodia, nella speranza di ricevere dai parenti un vecchio modello che non scatti fotografie. Oppure bisogna spaccarlo. Usano una biro. La conficcano nell’obiettivo. Un colpo secco. Fanno quasi tutti così. Hanno telefonini mutilati, orbi. Li tengono in tasca anche mentre giocano a pallone. Aspettano dall’avvocato la chiamata che può salvargli la vita in Italia.
Zona rossa, la prima a sinistra dopo gli uffici amministrativi. Entriamo alle 18,20. Sulla porta della camerata numero uno c’è la foto di Anna Falchi nuda. Al posto dello scotch funziona il dentifricio. La stanza numero due invece è quella dov’è morto Hassan Nejl, 36 anni, tunisino. Era grande, grosso e prendeva il metadone. L’hanno trovato sabato 24 maggio alle 8,15 di mattina. Steso sul materasso di gomma piuma, accucciato su un fianco come un bambino. Aveva la schiuma alla bocca. Secondo i compagni stava malissimo. Febbre a quaranta, macchie rosse sul viso. “L’hanno lasciato morire come un cane – dicono ancora adesso – a mezzanotte abbiamo chiesto aiuto, ma non l’hanno soccorso”. Per la Croce Rossa, che gestisce il centro su incarico della Prefettura, la verità è un’altra. Hassan Nejl era stato visitato in infermeria nel pomeriggio, aveva poche linee di febbre e la gola leggermente infiammata. I primi esami dell’autopsia avrebbero evidenziato tracce di diverse sostanze stupefacenti nel suo organismo. Forse è morto di overdose. La Procura di Torino ha aperto un’inchiesta. Per ora non ci sono indagati. Di sicuro l’inaugurazione del più moderno ed attrezzato Cpt italiano, modello per la nuova linea di governo – si chiamerà Cie Centro di identificazione ed espulsione – è stata tragica. Per tutti.
Berlusconi cambia legge!”, urla un ragazzo riccio appena vede la telecamere. “Non puoi lasciarci qui dentro per diciotto mesi”, si sbraccia come se parlasse direttamente al premier. Nelle ultime settimane il clima è cambiato. Said Rabi, 31 anni, marocchino, ha denunciato di essere stato pestato dagli agenti. La polizia lo ha denunciato per resistenza. Interrogato, Rabi ha ammesso di aver dato due testate contro il muro dell’infermeria volontariamente. “Ero ammanettato e schiacciato sul pavimento – ha detto piangendo – l’ho fatto per rabbia”. Non era mai successo niente di troppo grave in nove anni di vecchia gestione. Niente, se si escludono tre epidemia di scabbia, le ragazze nigeriane nude sui tetti per protesta, le fughe tentate e quelle riuscite, i materassi incendiati, i trentamila in manifestazione qui davanti il 30 novembre 2002: “Chiudere il lager di Torino!”.
Una volta c’erano i container di lamiera. Caldo infernale nei pomeriggi d’estate. Ora, dodici milioni di euro stanziati dal ministero dell’Interno si sono trasformati in queste casette in muratura chiuse da gabbie alte, con telecamere telescopiche che riprendono ogni respiro di vita comune. “Tutte le stanze sono collegate con un citofono – dice il colonnello della Croce Rossa, Antonio Baldacci – si può chiedere assistenza in qualsiasi momento. C’è un medico di guardia ventiquattr’ore su ventiquattro. Per la giornata offriamo carte, dama, pallone e giornali in lingua. Facciamo ginnastica tre volte a settimana, c’è un barbiere a disposizione degli ospiti”. È tutto inchiodato al cemento. Tutto grezzo e lineare. Per evitare lanci, danneggiamenti, tentativi di suicidio. I televisori al plasma sono piantati in alto sulle pareti. Un telecomando ogni sei letti.
“Mi chiamo Rusafi Muhessyn. Ho il permesso scaduto. Sono qui da 18 anni. Ho sempre fatto il cuoco. Purtroppo in nero, questo è il problema. Io dico che se si mettono una mano sul cuore mi lasciano andare…”. Youssef Kharin ha una camicia azzurra a maniche corte e un borsello a tracolla: “Sono stato ricoverato all’ospedale di Forlì per sessanta giorni. Qui al polmone mi hanno messo un tubo. Sabato avevo l’appuntamento per fare gli esami del sangue. La polizia mi ha preso e portato al centro. Avevano le sirene accese. Ma io non ho mai toccato nessuno, sono sempre stato tranquillo con la mia donna. Ho problemi perché lavoravo per un’agenzia. Contratti di tre mesi, tre mesi, tre mesi… Quando mi sono ammalato ho perso il lavoro e il permesso”. La giornata è scandita da orari precisi. Colazione alle 9. Visite autorizzate alle 14. Distribuzione cena e cambio biancheria alle 20. Il momento più atteso però è alle 13: pranzo, posta e sigarette. Vengono distribuite dieci MS a testa al giorno. Tabacco di Stato.
Questa sera dentro al Cpt ci sono 67 persone, dieci sono donne. Quasi nessuno dice di essere stato in carcere. “È quello che raccontano – spiega il vicequestore Rosanna Lavezzaro, responsabile della sicurezza – ma la stragrande maggioranza ha precedenti penali. Qui a Torino stiamo attentissimi, in questo senso. Difficilmente troverete al Cpt una badante clandestina incappata nel primo controllo di polizia”. Però nella stanza numero sei, puoi trovarci il badante algerino Hamitius Munir, di anni 47: “Ho passato la vita a guardare una persona anziana. Dall’88 non torno nel mio paese per colpa della guerra. L’ultimo permesso l’ho avuto nel ‘92. Sono senza documenti, ma ho fatto del bene al prossimo. Se torno in Algeria mi ammazzano subito”. Abdellilleh Bahaj, 33 anni, da Casablanca, grandi occhiali neri da sole, ha vecchi precedenti per spaccio: “Il nostro problema sono i documenti. Questa nuova legge di Berlusconi non va bene. È contro la Comunità Europea. Voglio uscire da qui, restare in Italia, fare una vita buona, cercare un lavoro e una donna. Voglio stare tranquillo e aiutare mia madre”. Preghiere. Mentre arriva il carrello della mensa.
Niente birra. Vietati gli alcolici anche ai non musulmani. Hassan Elbentaui, 38 anni – “sedicente marocchino” c’è scritto nel suo fascicolo – detesta il menù: “Basta piselli e riso, questo schifo qui! Io a casa mangio la carne e il pesce, tante ricette. È vero: sono stato in carcere. Ma il carcere è meglio che il centro. Almeno sai cosa ti aspetta”. “Sì – interviene un ragazzo che si gratta le caviglie – qui non dicono niente. Ci fanno la sorpresa. Fanno quello che vogliono loro”.
Ora le ruspe non scavano più. I lavori per l’ampliamento del centro ricominciano domani mattina. Altre camerate in muratura, altre gabbie, altri dieci milioni di euro, fino a 180 posti. Molte cose stanno cambiando intorno al Cpt di Torino, non solo il nome, non soltanto l’aspetto esteriore. Alla manifestazione in memoria di Hassan Nejl, sabato 31 maggio, c’erano meno di trecento persone. Forse le gabbie per i clandestini in attesa di identificazione non indignano più. Hassan Nejl era sconosciuto a Torino e quasi dimenticato a casa. La sua famiglia vive alla periferia di Tunisi. Attraverso un’interprete, la madre ha chiesto un favore alla polizia: “Non lo vedo da dodici anni – ha detto piangendo al telefono – mandatemi una foto insieme alla bara. Qualunque foto, anche da morto”.




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