Dossier. Mi.: Lavoratori a chiamata. 5. Le difficoltà di una “non professione”

18
Feb

In questo dossier, pubblichiamo, in 6 puntate, il lavoro di Simona Ciobanu e Zivkica Nedanovska, due mediatrici interculturali di Ravenna, realizzato nel 2009 e dal titolo: Lavoratori a chiamata: i mediatori culturali. 

  1. Introduzione
  2. Il contesto della mediazione culturale in Italia.
  3. Il mediatore culturale straniero: una professione nuova e precaria a rischio di estinzione.
  4. Il mediatore culturale: definizioni formali e discriminazioni sostanziali.
  5. Le difficoltà di una “non professione”: un’agenda frutto dell’esperienza.
  6. Conclusioni. La mediazione: quali prospettive, in positivo? 

5. Le difficoltà di una “non professione”: un’agenda frutto dell’esperienza.

di Simona Ciobanu

A richiedere una definizione ufficiale e requisiti professionali più certi sono gli stessi lavoratori del settore. Ma occorre prima definire la professione e il quadro normativo. Spesso vengono proposti corsi generici, quando invece c’è bisogno di formazione specifica per il settore scolastico o per quello sanitario, competenze che non si può pensare di “apprendere” nelle poche ore di formazione. Si tratta, innanzitutto, di riconoscere i titoli di studio conseguiti all’estero e in base a questi indirizzare le persone a «specializzarsi» nell’ambito per cui già si sono formate: per esempio, gli insegnanti di madrelingua potrebbero non soltanto fare mediazione con gli alunni neo arrivati ma anche insegnare la lingua madre o inserirsi nei dopo scuola. Non possiamo creare ghetti professionali.

La mancanza di una definizione univoca della professione di mediatore ha come conseguenza una ricorrente difficoltà a determinarne con chiarezza anche il ruolo e il profilo professionale. Questo è molto evidente in particolare nella scuola dove, tra le funzioni che vengono richieste ai mediatori, spicca quella dell’alfabetizzazione in italiano dei nuovi alunni, oltre a quelle di sostegno scolastico ed extrascolastico e di insegnamento individualizzato, facendo emergere nei loro confronti aspettative che esulano dalle loro reali attribuzioni e provocano disorientamento e conflitti di ruolo. I mediatori, d’altro canto, non hanno gli strumenti per opporsi a questa situazione, poiché le stesse istituzioni che li richiedono delegittimano la loro posizione nella scuola, non permettendo loro di avere un ruolo professionale definito e chiaro per tutti gli operatori con cui lavorano.

La carenza e la discontinuità delle risorse finanziare messe a disposizione, determinano da una parte una precarietà lavorativa che mal si concilia con le esigenze di professionalità che tutti richiedono, e dall’altra un mancato miglioramento della qualità dei servizi. Si crea così il paradosso del non-lavoro, o del “secondo lavoro”, come viene spesso chiamato per giustificare le condizioni di precariato selvaggio in cui il mediatore si viene a trovare.

L’assenza di continuità favorisce, infatti, la dissoluzione delle competenze via , via accumulate.

Il bisogno di mediazione è manifesto negli operatori, ma è evidente la necessità di sensibilizzare gli amministratori affinché investano maggiormente nella mediazione e nell’intercultura.

Da un lato la scarsa chiarezza danneggia la qualità del servizio offerto, dal momento che oggi si può ottenere un attestato di mediatore anche con corsi di poche ore. Dall’altro, finché non ci saranno regole si continuerà a lavorare in modo precario, retribuiti con tariffe sempre diverse e discrezionali. Non esistono ancora, osserva il Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli) «standard di qualità sia nel campo della formazione dei mediatori sia sul piano dell’erogazione dei servizi di mediazione nei differenti settori di intervento in cui essa si è diffusa»

Il bisogno di mediazione è manifesto negli operatori, ma è evidente la necessità di sensibilizzare gli amministratori affinché investano nella mediazione e nell’intercultura. Oggi sono molti a svolgere questa professione, ma in forme disorganizzate.

Così come non esiste una definizione ufficiale del ruolo di mediatore culturale, anche le regole sulla retribuzione e sul contratto di lavoro sono problematiche. Non esiste un albo della categoria né un tariffario standard per i pagamenti. Di conseguenza molti mediatori lavorano in modo precario e senza uno stipendio fisso. Hanno perlopiù contratti a progetto, la cui durata dipende dagli appalti pubblici vinti dalle singole organizzazioni: spesso ad aggiudicarseli sono gli enti che si sanno muovere meglio, hanno più agganci politici o forniscono più referenze o semplicemente si offrono a un prezzo più basso. Per questo si viene retribuiti con tariffe discrezionali e la continuità lavorativa dipende dalla vicinanza del mediatore alle organizzazioni che ottengono gli appalti migliori più che dai singoli curriculum, per i quali non esistono criteri fissi di valutazione. Il rischio è che, se gli appalti vengono vinti al ribasso, ossia assegnati a chi chiede meno soldi per gestire un servizio, i mediatori vengano pagati sempre meno. Con un ritorno al passato, oggi alcune agenzie vendono servizi di mediazione a 16 euro l’ora e solo la metà circa finisce al mediatore, ma ci sono anche scuole in Italia che pagano un mediatore circa 4 euro l’ora. Il non-lavoro che i mediatori svolgono, spesso a tempo pieno ma senza alcuna garanzia di continuità, si svolge secondo tempi definiti dalle esigenze della struttura in cui operano, con un impegno di tempo e di energie del tutto assimilabile a quelle di un lavoro dipendente, ma che non riesce ad essere considerato tale dai nostri amministratori. È lecito chiedersi se ciò avvenga proprio per non dovere corrispondere al lavoratore compensi e diritti dovuti a fronte della richiesta di un servizio sempre più qualificato.

Per concludere questo paragrafo analitico elenchiamo qui di seguito alcune delle principali difficoltà inerenti le attività di un mediatore e alcuni degli aspetti che meglio qualificano il lavoro del mediatore come una risorsa per la collettività, limitandoci, per ragioni di spazio a sottolineature che riguardano il lavoratore straniero e l’ambito di intervento scolastico sociale.

Difficoltà emerse nello svolgere la mediazione nell’ambito scolastico e nell’ambito sociale.

–  Si rileva una tendenza di fondo a prevedere come obiettivo principale della mediazione l’acquisizione o il sostegno della lingua italiana sia orale che scritta, presupponendo così di risolvere le difficoltà di comunicazione tra le culture sull’esclusivo piano linguistico.

–  ambiguità del ruolo: alcuni operatori considerano i mediatori come figure di passaggio e semplici traduttori da utilizzare solo in caso di emergenza, oppure ci sono operatori con grandi aspettative che considerano i mediatori dei dispositivi passepartout, dei tecnici in grado di risolvere qualsiasi questione legata all’intercultura e all’integrazione dei cittadini stranieri.

–  svalorizzazione della lingua madre dei bambini, in quanto non si cura il mantenimento della lingua che il bambino già possiede e non si riconosce la legittimità di poter studiare come lingua “straniera” la propria lingua madre. È invece dimostrato che il riconoscimento istituzionale della lingua d’origine permette un apprendimento generale in condizioni psichiche favorevoli.

–  frustrazione nello svolgere la professione senza che tutti sappiano che ruolo ha il mediatore, quali sono i compiti ed i limiti della nuova professione, quindi difficoltà di spiegare all’utenza il ruolo ed il proprio compito.

–  mancato riconoscimento professionale il che implica anche non avere un’autorità nel rapporto con le istituzioni e con l’utenza stessa.

–  collocazione professionale precaria il che impedisce di dotare il servizio di alcune competenze in modo permanente

–  difficoltà delle istituzioni e delle persone ad accettare che le differenze sono reali per molti aspetti: educativi, sanitari ecc, e quindi servono necessariamente figure di mediatori differenziate con solide competenze nell’ambito in cui si chiede la loro presenza e prestazione professionale. Si rischia di utilizzare una persona in ambiti diversi da quelli richiesti, pensando così di “aiutare” il mediatore già precario ad arrotondare le sue entrate, senza pensare al servizio scarso che si offre, in quanto, come accennato sopra, una persona non può avere solide competenze in quattro ambiti diversi e non si è in grado di offrire prestazioni ottime in tutti quegli ambiti (ci si chiede allora a che pro pagare una persona se comunque non se ne ricava alcun beneficio, né come istituzione né come utenza?)

–  lavoro di poche ore alla settimana e alcune settimane addirittura nessun lavoro, ma in tutto questo tempo si è costretti a dare la propria disponibilità 24 ore su 24 pur di non rimanere esclusi.

–  convenzioni precarie e riferite ad un periodo di tempo determinato, per cui non è da escludere la chiusura da un giorno all’altro di questi “progetti sperimentali ed emergenziali”

–  insufficiente informazione all’utenza sulla presenza del mediatore spesso è utilizzato come paravento, senza alcuna possibilità di dire la sua o di cercare di cambiare decisioni assunte prima che fosse chiamato a prestare la sua opera professionale.

–  Si registrano difficoltà da parte degli insegnanti e in genere degli operatori della scuola nell’accettare l’apporto interculturale del mediatore.

–  ci sono, in genere, scarse risorse economiche e poca disponibilità da parte delle scuole ad investire nella mediazione.

–  riunioni, preparazione del materiale, trasporto non riconosciuti.

–  numero di ore a disposizione troppo esiguo per raggiungere risultati proficui

–  crescita di professionalità non accompagnata da pari crescita occupazionale.

 

 




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