Intercultura e operatori interculturali

18
Feb

Un contributo di Maria Mihaela Barbieru*

La teologia interculturale implica la fede, nel suo senso più profondo, e la fiducia nell’Altro; la fede in noi stessi e la fede in ciò che guida noi e tutto ciò che esiste. “Soltanto quando il cuore è vuoto o puro non avrò paura di rischiare la mia fede, se necessario. (…) Lo spazio fra le culture è vuoto. Possiamo colmarlo nel momento in cui usciamo da noi stessi e incontriamo l’Altro” (Panikkar, 2005).

La provincia autonoma di Bolzano, con D.G.P. n. 4266/2001 e con riferimento all’Ordinamento della formazione professionale (L.P. n. 40/1992), ha definito come di seguito ho riportato la figura dell’operatore interculturale:

“Un operatore interculturale, un educatore delle differenze è in grado di facilitare la comunicazione e la comprensione linguistica e culturale fra persone di culture diverse e, in particolare, fra l’utente straniero e l’operatore di un servizio pubblico o privato, nel rispetto dei diritti delle parti interessate alla relazione […] promuovere presso l’utenza straniera il razionale utilizzo dei servizi e delle istituzioni italiane, favorire presso i servizi il progressivo adeguamento ai bisogni dell’utenza straniera, prevenire e gestire i conflitti fra utenza straniera e servizi locali. Il ruolo del mediatore è, quindi, quello di ponte, cerniera, interfaccia fra utenza straniera e operatori dei servizi pubblici e privati, ovvero fra presupposti e significati culturali diversi, nel rispetto degli specifici ruoli, funzioni e poteri di ciascuna parte della relazione, senza sostituirsi e rappresentare gli uni o gli altri”.

Il mediatore

Mediation à la FAc photo de Jean-Pierre Dalbéra

Per quanto concerne la figura del Mediatore, Marianella Sclavi ricorda nel suo libro dell’importanza di mediatori, essi vengono considerati come dei veri costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”.

In ogni situazione di coesistenza inter – etnica si sconta, in principio, una mancanza di conoscenza reciproca, di rapporti, di familiarità. Estrema importanza positiva possono avere persone, gruppi, istituzioni che si collochino consapevolmente ai confini tra le comunità conviventi e coltivino in tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la cooperazione. La promozione di eventi comuni e occasioni di incontro e azione comune non nasce dal nulla, ma chiede una tenace e delicata opera di sensibilizzazione, di mediazione e di familiarizzazione, che va sviluppata con cura e credibilità. Accanto all’identità e ai confini più o meno netti delle diverse aggregazioni etniche è di fondamentale rilevanza che qualcuno, in simili società, si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini: attività che magari in situazioni di tensione e conflitto assomiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’inter-azione. Esplosioni di nazionalismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso, ecc. sono tra i fattori più dirompenti della convivenza civile che si conoscano (più delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), e implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la cultura, l’economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre che la politica e la religione. Occorre quindi una grande capacità di affrontare e dissolvere la conflittualità etnica. Ciò richiederà che in ogni comunità etnica si valorizzino le persone e le forze capaci di autocritica verso la propria comunità: veri e propri “traditori della compattezza etnica”, che però non si devono mai trasformare in transfughi, se vogliono mantenere le radici e restare credibili. Proprio in caso di conflitto è essenziale relativizzare e diminuire le spinte che portano le differenti comunità etniche a cercare appoggi esterni (potenze tutelari, interventi esterni, ecc.) e valorizzare gli elementi di comune legame al territorio  [1]

I mediatori, questi costruttori di ponti e saltatori di muri dovrebbero sapere anche “abitare ma non oltrepassare la soglia”, nella visione di Romina Coin, rimanendo dei perenni “al kantara”.

Nell’approccio con l’Altro, in particolare con l’Altro di un ‘Altra cultura, una buona traduzione linguistica è importante, ma non sufficiente. Anche la buona conoscenza della cultura dell’Altro non allontana il rischio di commettere gli errori che possono bloccare la relazione comunicativa o fuorviarne la comprensione. E’ a questo punto, interviene il mediatore interculturale, a cui spetta il compito di facilitare questo processo indipendentemente dallo schema cognitivo a cui ciascuno fa risalire la propria competenza linguistica. […] Per questo l’obiettivo di una relazione in chiave interculturale risiede nella capacità non di negare la differenziazione, bensì di promuovere l’annullamento delle differenze a livello dei significati. […] Un discorso però che non si attua nello spazio delle rispettive visioni linguistico-culturali, ma che se esprime solo agendo quello che Sini definisce “abitare la soglia”. E’ la soglia, ossia quello spazio incontaminato, o di frontiera, che divide l’Io dal Non Io, finisce con l’esaurirsi in esso. […] Significa costruire un rapporto dinamico tra lingua e cultura. Significa reinventarsi i propri codici comunicativi attribuendo alla nuova lingua inflessioni, toni e musicalità, come nel proprio idioma d’origine. Significa ricostruire un linguaggio che non è più né mio né tuo, ma che può finalmente appartenere ad entrambi. Ma significa anche poter leggere e sapere interpretare le percezioni proprie e dell’altro per intuirne i punti di contatto. Significa riconoscere le soggettività all’interno delle differenze. [..] Abitare la soglia contiene in sé, come costante possibilità, il concetto di attraversamento, ma non si esaurisce, né si realizza, in esso.

“Attraversare la soglia significa che ciò che era di là non è più il medesimo dall’altra parte. Dal di qua al di là qualcosa cambia. Qualcosa cambia intorno a noi, qualcosa cambia entro di noi, sicché attraversare le soglie è continuamente fare esperienza di noi stessi e del mondo” (Sini, 1993)

Il mediatore dell’interculturalità agisce questo passaggio, senza poterlo mai realizzare in modo definitivo. Non oltrepassa la soglia, ma la abita costantemente. In questo sue essere bilico continua ad essere se stesso senza mai smetter di diventare altro. Afferma necessariamente la propria cultura assumendo quella dell’altro.

A buon motivo, il mediatore della comunicazione interculturale è stato definito “al kantara”, termine arabo che indica un ponte sospeso tra due rive.  [2]

Il Counselor

La seconda figura sulla quale mi voglio soffermare è la figura del counselor, colei o colui che dà sostegno e <si dà> nella relazione di aiuto ma ha anche l’umiltà di mettersi da parte, di concedere posto all’altro. Proprio come si fa o come si dovrebbe fare quando si viaggia, nella metropolitana per esempio, e si incontra una persona anziana o in visibile bisogno: se si è seduti, si comprende la sua necessità del momento e le si cede il posto.

In merito alla relazione di aiuto, l’autrice Annamaria di Fabio indica, nel suo libro “Counseling – Dalla teoria all’applicazione”, delle linee guida a cui considero che si debba prestar attenzione:

L’attenzione, prima concentrata sull’operatore/esperto, ora si sposta sul cliente/persona e l’aiuto consiste in uno strumento di libertà (Giordani,1977) […] La relazione di aiuto non consiste più nel proporre soluzioni ma, al contrario, nel facilitare nel soggetto il processo di decisione responsabile attraverso risposte di comprensione- facilitazione da parte del counselor, nel pieno rispetto dei sentimenti, del vissuto, dei tempi e delle decisioni della persona. E’ un percorso volto all’autonomia del soggetto, che acquisisce così una graduale consapevolezza di sé. […] Il saper essere dell’operatore di aiuto diventa prioritario rispetto al saper fare e fondante rispetto alla validità dell’intervento spesso. Le abilità tecnico – procedurali sono ugualmente ritenute importanti, ma a patto che siano detenute da un individuo dotato preventivamente di qualità umane ( sensibile, genuino, accettante e non giudicante, flessibile, creativo, profondo, paziente, disponibile, autonomo), altrimenti le capacità tecniche possono costituire un arroccamento difensivo, che determinerebbe un aggravamento delle carenze interiori dell’operatore e l’inadeguatezza operativa.[…] Le concrete abilità di relazione umana indicate da Carl Rogers hanno ancora una volta sottolineano l’importanza attribuita alla ricchezza interiore dell’operatore, da intendersi come possesso personale ma non come patrimonio statico e inesauribile, e, pertanto come potenzialità individuali in continuo affinamento formativo. L’uso del Sé è ritenuto un fattore fondamentale nel processo di aiuto rogersiano ed ha conseguentemente un posto di primo piano, costituendo il focus della formazione] [3]

Il Counselor, facendo leva sulle sue capacità, qualità e risorse della persona coinvolta nella situazione problematica, non cerca semplicemente di risolvere i problemi quanto piuttosto a sviluppare il processo di esplorazione, comprensione e apprendimento  attraverso un esperire reciproco che ha luogo all’interno della relazione counselor- consultante. La finalità è quella di poter raggiungere una miglior espressione del proprio Sé da parte di chi richiede l’intervento e che viene condotto nella condizione di trovare vie di uscita personali alle situazioni problematiche, oggetto di consulenza. L’obiettivo principale del counselor è quello di individuare e alimentare le risorse o le capacità personali e i maggiori punti di forza delle singole persone che incontra, in relazione alle soluzioni uniche e singolari delle problematiche presentate.

Ciò che per me è molto importante è che il counselor dovrebbe essere in grado di creare, durante il counseling, <un’atmosfera empatica>.

“Se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore per aiutarla non è quello di dirle esplicitamente cosa fare, quanto piuttosto di indirizzarla a comprendere la situazione e a gestire il problema facendole prendere, da sola e pienamente, la responsabilità delle proprie scelte e decisioni. Gli individui hanno in sé stessi ampie risorse per auto-comprendersi e per modificare il loro concetto di sé.”  afferma Carl Rogers.

Dunque, stando a quanto sopra affermato da Rogers, il cliente potrebbe “saperne di più”? Potrebbe, quindi, essere consapevole di ciò che lo sta facendo soffrire e che passo dovrebbe successivamente compiere per superare la sofferenza? Penso proprio di sì. Con altre parole, l’esperto del problema è proprio la persona che ce l’ha.

Rogers ha definito il suo modo di lavorare “counseling non direttivo”, sottolineando come il compito del counselor nella relazione di aiuto, sia quello di far entrare il cliente in contatto con le sue stesse risorse, piuttosto che influenzarlo, consigliarlo, sostenerlo nella direzione e/o decisione da prendere. Tutto questo perché “le persone sane sono ritenute per natura, capaci di comportarsi in maniera efficace, capaci di darsi degli obiettivi e di raggiungerli”, afferma lui.

Il counseling che Rogers propone è caratterizzato da un forte ottimismo: ogni essere umano ha dentro di sé le condizioni potenziali per una crescita sana e creativa;

ogni condizionamento negativo può essere vinto se l’individuo è disposto ad accettare la responsabilità della propria vita. Ogni individuo ha perciò una innata tendenza all’autorealizzazione.

Il counselor può capire il suo cliente solamente partendo dalle sue percezioni e dai suoi sentimenti, ossia dal suo mondo fenomenologico. Per capirlo, il counselor non deve concentrare l’attenzione sugli eventi che il suo cliente vive, ma sul modo in cui li vive. Il counselor ha bisogno di comunicare tre qualità di base affinché la relazione d’aiuto sia efficace ed abbia un esito positivo tanto da ottenere un cambiamento significativo nel cliente.

La prima è l’empatia, cioè la capacità di sperimentare il mondo di un’altra persona come se fosse

il mondo proprio, la seconda qualità di base che Carl Rogers considera essenziale è l’accettazione incondizionata del cliente per quello che è, per la sua unicità ed individualità e

l’ultima qualità che il counselor dovrebbe avere è la congruenza, ovvero la capacità di aprirsi spontaneamente nella comunicazione col cliente, in modo da rimanere sempre autentico nell’esprimersi.

Concludo, riportando una citazione di Carl Rogers che fa riflettere e che riguarda, appunto, Noi e gli Altri.

“Tutti abbiamo paura di cambiare. Una delle ragioni principali della resistenza a comprendere, è la paura del cambiamento: se veramente mi permetto di capire un’altra persona, posso essere cambiato da quanto comprendo” Carl Rogers

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Note:

[1].Marianella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, 2003, pag. 341

[2] Romina Coin e all, Psicologia sociale e intercultura. Valori, saperi, relazioni, pagg.108 e 111.

[3] Romina Coin e all, Psicologia sociale e intercutura. Valori, saperi, relazioni, pag. 158

 

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(*)- Maria Mihaela Barbieru. 

Laureata in Filologia – Lingue Romanze, master conseguito presso l’Università degli Studi di Verona in “Intercultural Competence and Management – Comunicazione, gestione dei conflitti e mediazione interculturale in ambito aziendale, educativo, sociosanitario, giuridico, dei mass media e per l’italiano L2”, iscritta all’Albo dei Periti Tecnici e CTU presso i Tribunali di Milano e Monza, mi occupo di traduzioni giurate ed interpretariato nonché comunicazione e mediazione interculturale, docenza e consulenza linguistica aziendale.

Info: mbarbieru@hotmail.com




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