La giornalista Pivetti e i killer del linguaggio

Il giornale La Repubblica come ogni anniversario del naufragio della Kater i Rades rifà la stessa domanda a Irene Pivetti.
In occasione dell’undicesimo anniversario del naufragio della Kater I Rades (nel quale morirono 108 cittadini albanesi che tentavano di raggiungere l’Italia) torniamo a chiedere a Irene Pivetti perché mai, il 27 marzo del 1997, lanciò la proposta di “buttare in mare” i migranti irregolari. Un anno fa, in occasione del decennale della tragedia, ponemmo lo stesso quesito e annunciammo che, in assenza di una risposta, l’avremmo riproposto a ogni anniversario. La risposta non è arrivata ed eccoci nuovamente qua.
Sia chiaro: non c’è alcun accanimento nei confronti di Irene Pivetti. Siamo tra quelli che hanno apprezzato la sua decisione di abbandonare l’attività politica e anzi hanno sperato che quella scelta coraggiosa fosse assunta a modello da altri. Inoltre alla collega Pivetti va dato atto che quella sua frase agghiacciante è stata in seguito superata da altre e, insomma, non è più ai vertici delle dichiarazioni razziste pronunciate da politici italiani. In questi anni abbiamo sentito e visto ben altro. Dalla maglietta di Calderoli che riuscì a scatenare una rivolta in Libia, alle perplessità di Gianfranco Fini attorno al nero Barak Obama.

Ma, paradossalmente, quest’arricchirsi dell’antologia, mentre relativizza la frase sui clandestini da buttare in mare, rende ancor più necessaria una spiegazione da parte di chi la pronunciò. Come già abbiamo ricordato anche un anno fa, Irene Pivetti è ora una giornalista professionista e ciò che accomuna le uscite razziste – così variegate nel contenuto e nella forma – è proprio il loro percorso mediatico.

E’ sempre uguale: allo sproposito segue immancabilmente una smentita o, in alternativa, una “interpretazione autentica” volta a edulcorarne il significato. Esistono poi alcuni personaggi pubblici che, per via della reiterazione del comportamento, hanno conquistato una sorta di autorizzazione a dire qualunque sciocchezza perché “lui è fatto così”. Alla fine dello scorso anno, l’ennesima minaccia di ricorso alle armi lanciata da Umberto Bossi, anziché determinare l’avvio di un procedimento penale, ha suscitato appena qualche risatina.
Non è curioso che, mentre si propone di sottoporre i migranti a un esame di lingua, si svuoti il linguaggio del suo significato? Non è una vergogna che le parole – cioè il mezzo che noi, poveri uomini, ci siamo dati per comunicare – abbiano un diverso significato a seconda di chi le pronuncia? Queste, collega Pivetti, sono domande aggiuntive a quella fondamentale e anzi ne sono il corollario.
Perché il meccanismo dichiarazione-smentita o dichiarazione-edulcorazione è diventato così regolare da suscitare un sospetto: che l’intero processo sia lucidamente pianificato. Che, cioè, l’autore dello sproposito consideri due diversi piani di comunicazione, due diversi gruppi di interlocutori: l’opinione pubblica generale da una parte e, dall’altra, i suoi elettori. Cioè: si dice un’enormità e si sta a vedere se “passa” oppure no. Nella seconda ipotesi si smentisce, ma tardivamente e strizzando un occhio ai consenzienti. A volte, se cambiano le circostanze della vita, si smentisce dieci anni dopo.

Come, ahinoi, nel tuo caso, collega Pivetti. Un mese fa, in un’intervista a “la Stampa”, ti è stata ricordata quella frase miseranda. L’hai spiegata così: “Dissi: “Questa gente va rimessa in mare”. Tutt’altro concetto”. Per poi hai aggiunto, con rassegnato rammarico: “Ma niente da fare: sarò sempre quella che ha detto: “Buttiamoli in mare””.

Eh già. Perché, purtroppo, l’hai detto. Non ricordi che persino l’allora cardinale Ratzinger restò senza parole? Non ricordi che quando, subito dopo l’affondamento della Kater I Rades, qualcuno te ne chiese conto, rispondesti: “Non li ho buttati in mare io”. Usavi il verbo “buttare”, non il verbo “rimettere” (e poi che diavolo significa “rimettere” un uomo in mare? Capita, a volte, quando il mare è mosso, che gli uomini “rimettano” in mare, ed è disgustoso. Ma mai quanto vedere uomini che vomitano altri uomini, come fossero dei cibi indigesti e avvelenati anziché dei loro simili. Dunque, altra domanda: cosa intendi per ‘rimettere’?).
In definitiva, cara collega, il dubbio è che questi due piani di comunicazione stiano dando un contributo a logorare il dibattito civile e anche a svuotare di senso il linguaggio. A uccidere le parole, che poi sono la base del nostro lavoro di giornalisti. Ecco perché ci permettiamo di insistere. Se no, all’anno prossimo.
(glialtrinoi@repubblica. it)




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