“L’universo romani” che conoscevo a Tirana

18
Feb

Un contributo di Adela Kolea* 

A Tirana li chiamano “Evgjitë“, “Jevgj”.  E loro chiamano noi “Gaxhi, gaxhije, cioè “Non Rom“.

Per i Rom infatti, chi non fa parte del loro popolo, è un “Gagio” (in altri dialetti Gagio, Cagio, Kaggio, Gadjo, in Inghilterra anche Gaujo o Gorgio)

A Tirana invece, si chiama “Evgjitë” – “Jevgj”, quella parte di Rom stabili e sedentari – sembra un ossimoro – integrati ad un certo modo nella società: coloro che hanno un lavoro – solitamente svolgevano lavori umili e pesanti- e che possedevano un’abitazione in affitto come tutti gli albanesi, almeno fino ad inizio anni ‘90. Perché gli albanesi vivevano tutti in affitto, la proprietà privata era stata abolita dal dopoguerra.

Chiamavano “arixhi”, “nomad”, “endacak”, “gabel”, tutti coloro che vivevano nelle baraccopoli alla periferia di Tirana.

Scena di festa a Tirana. Foto: Dragan Tatic

Tra gli “Evgjitë”, nel mio quartiere c’erano dei bravi musicisti, solitamente suonavano clarinetto e fisarmonica e altri che lavoravano nel Circo, l’unica ente circense statale della capitale albanese. Ero andata con le amiche -ricordo, ai tempi ero adolescente – a vedere una sposa Evgjitë nel quartiere.

Eravamo rimaste basite perché, invece dell’abito bianco che ci aspettavamo, la avevamo vista vestita con un abito appariscente, colore rosso, e abbellita di rose rosse sgargianti, tanta bigiotteria e trucco molto accentuato.

Quando ero ancora una bambina, a Tirana, ricordo che vicino alla casa di mia nonna, abitava una famiglia rom che parlava perfettamente sia albanese, che greco. Loro parlavano anche una terza lingua che io non comprendevo… O meglio: quella era la loro lingua madre, la lingua romanés, che io non sapevo come definire. Mi sembravano letteralmente poliglotti e gente di mondo…!

Infatti loro venivano dalla Grecia. La madre di questa famiglia, una donna forte con 5-6 figli, aveva lasciato in Grecia fratelli e sorelle e non so come loro stessi fossero finiti in Albania, non so se proprio nel dopoguerra. Mia nonna, turca, ma cresciuta in Grecia, parlava il greco meglio del turco e con la madre di quei bambini parlava solo in greco.

Io preferisco definirli “Rom”, il termine che loro stessi usano per definirsi, che significa “Uomo” nella loro lingua romanés e non con il termine “zingaro”, dalle connotazioni dispregiative che a loro è stato attribuito da altri.

Insomma io, da figlia unica, invidiavo un po’ la vivacità di casa loro e il rapporto allegro tra fratelli e sorelle che regnava in quella famiglia.

Io avevo “un problema”: ero molto schizzinosa nel mangiare. La nonna cucinava molto bene. Anzi, era nota in quartiere come un’ottima cuoca, ma nonostante ciò, io facevo capricci nel mangiare. Allora la nonna improvvisava dei picnic oppure delle gite fuori porta, perché all’aperto, giocando nei campi coi bambini, l’appetito mi veniva di più e mangiavo più volentieri.

Un giorno, d’estate, quando le scuole erano chiuse, mia madre prima di andare a lavorare, mi aveva lasciato per l’ennesima volta dalla nonna. Al suo ritorno dal lavoro, non mi trovò a casa di nonna, però. Quando aveva chiesto di me a sua madre,  questa rispose: “Tua figlia è dai vicini Rom! La donna di quella casa, quando ha assistito ai capricci che tua figlia faceva qui con me, perché non voleva mangiare, mi ha detto di farla andare a casa loro, convinta che da loro avrebbe mangiato senza esitazioni!”

Mia madre era corsa giù nel loro appartamento, con il fiato che a momenti le scarseggiava e il cuore che le batteva forte -perché lei stessa non conosceva bene quella famiglia e certi stereotipi o luoghi comuni su di loro e precisamente, sul loro rapporto coi i bambini le frullavano in testa in quegli attimi, da farla svenire, credendo che non mi avrebbe mai più vista, credendo che quella donna avesse manipolato mia nonna e mi avesse rapita … – era entrata dentro, tanto loro non chiudevano nemmeno la porta e aveva trovato me, seduta per terra, in fila con i 5-6 bambini di quella casa, “a pranzare!”

In cosa consisteva il pranzo prelibato? In una fetta spessa di pane nero dalla crosta alta, spalmato di un mestolo di zuppa di fagioli! Impensabile per me mangiare i fagioli a casa mia o da mia nonna! E non solo, non da seduta composta davanti a una tavola ben curata ed apparecchiata a dovere, come era solito per me, ma a terra, con un pezzo di pane nero condito con zuppa di fagioli, in mano…

Mia madre aveva tentato di salutarmi, ma la madre di quei bambini Rom le aveva fatto cenno come per dirle: “Lasciala almeno finire quel pezzo di pane, non distrarla, che lo sta gustando più di un piatto di quelli a cui in casa propria fa capricci…!”

E mia madre così aveva fatto. Mi aveva osservata a distanza mentre finivo il pane coi fagioli. E non solo lo finì ma mi leccai pure le dita! Tanto, trasgredivo… “La mamma non mi guarda!” – credevo…

Insomma, i bambini non conoscono barriere etniche, culturali. Io li consideravo uguali a tutti gli altri bambini, mi piaceva la loro allegria e non mi rendevo conto della differenza che c’era per il modo degli adulti né della qualità del mangiare tra casa mia e quella loro. E non solo per il mangiare, ma per tutto lo stile di vita che conducevamo a vicenda. In quell’età, quei paletti erano invisibili per me.

 

*.  Adela Kolea. Collabora con varie testate online, Albania News, Osservatorio Balcani…




  • Share: