Seconda generazione:come si dice Obama in italiano?

Da noi potrebbe arrivare fra qualche generazione. Magari sarà un nipote di Valentino Agunu, genitori nigeriani, 22 anni per un metro e 92 d’altezza, pelle d’ebano e una futura laurea in Farmacia. O un discendente di Susan Dabbous, mamma e papà siriani, 26 anni, seducenti occhi orientali e accento romanesco. Certo non potrà essere un erede di Abdul “Abba” Guibre, 19 anni, da Cernusco sul Naviglio, cittadino italiano originario del Burkina Faso, sprangato a morte a Milano due mesi fa per il furto di qualche biscotto.
Il futuro Obama d’Italia, se mai ce ne sarà uno, va cercato lì, nel vivaio della 2G, la seconda generazione di immigrati. Ossia gli italianissimi figli dei primi stranieri arrivati da noi in cerca di fortuna, o soltanto di un pezzo di pane.
Camminano nelle nostre strade (e spesso i loro concittadini di pelle chiara cambiano marciapiede), salgono sugli stessi autobus (e non è raro che i vicini stringano le borse), frequentano le stesse scuole (fino a ieri nelle medesime classi dei nostri figli, domani chissà). Sono tanti, circa un milione (100 mila in più rispetto al 2007) di cui la metà (501 mila) sono studenti delle scuole italiane, dalle materne alle superiori. E sono destinati ad aumentare. Ma soprattutto a occupare se non il posto di presidente della Repubblica, il loro posto al sole.
Come già successe per i figli e i nipoti di coloro che negli anni Sessanta migrarono dal Sud al Nord d’Italia rendendo possibile il “miracolo economico”, anche gli eredi degli immigrati dal Sud e dall’Est del mondo riscatteranno il sudore dei padri diventando parte integrante della classe dirigente di domani. E pazienza se Igiaba Scego, nata 34 anni fa a Roma da genitori somali, non diventerà l’Oriana Fallaci del XXI secolo, lei intanto collabora a vari giornali e ha pubblicato due romanzi: l’ultimo, Oltre Babilonia è appena uscito per i tipi di Donzelli.
Poco importa anche se Alphousseyni Souko, nato a Roma 22 anni fa da genitori senegalesi, studente di Scienze politiche, indirizzo Relazioni internazionali, non diventerà ambasciatore a Washington, Mosca o Pechino: lui cercherà comunque di mettere a frutto i suoi studi “dando un senso a quella che è stata l’aspirazione dei miei genitori e di tutti i migranti: la possibilità di una vita migliore”. Lo stesso imperativo che guida Jessica Costa Moreno, 22 anni, romana con genitori capoverdiani, che studia Giurisprudenza “per tutelare i diritti degli immigrati e aiutarli a risolvere i loro piccoli e grandi problemi giuridici”.
Il panorama dei ragazzi 2G è vasto e vario come può esserlo quello dei loro coetanei italiani: c’è la simpatia del falegname-studente con la passione del basket Paolo Barros, 19 anni di incontenibile energia e faccia tosta (era uno dei soldati neri della 92a Divisione Buffalo in Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee), nato in Italia da mamma capoverdiana e papà della Guinea Bissau. C’è il fascino mediorientale di Rassmea Salah, 25 anni, mamma italiana e papà marocchino, milanese con laurea e specializzazione all’Istituto Orientale di Napoli in lingue e cultura arabo-islamica, stesso percorso di studi della sua amica e coetanea Nadia Kaouni, genitori marocchini, che si definisce “italiana di origini siculo-marocchine”. E c’è la grinta di Akram Idris, 25 anni, futuro ingegnere con madre egiziana e papà sudanese, disposto a lasciare la famiglia e Milano per costruire grattacieli negli Emirati o nei Paesi dell’Est, anche se porterà con sè la nostalgia per la mamma e per la cotoletta alla milanese. Sono ragazzi che vivono, mangiano, amano come i loro concittadini “di origine italiana” come li chiama scherzosamente Alphoussenyni. Anche se con qualche differenza che può rivelarsi una marcia in più. Prendiamo la disponibilità allo spostamento dichiarata da Akram: quanti giovani italiani accetterebbero di lasciare per lavoro anche solo la propria città? “Noi il viaggio ce l’abbiamo nel sangue, siamo figli di gente che ha macinato migliaia di chilometri per trovare un futuro migliore: non ci spaventa di certo l’idea di trovare lavoro lontano da casa”. Già, ma dov’è casa loro? “Qui, nel Paese dove siamo nati o arrivati da piccoli” rispondono infallibilmente tutti. Che indossi il velo come la milanese Lubna Ammouna, ventenne studentessa in Farmacia con papà siriano e mamma siro-tedesca, o sfoggi i bei ricci naturali come sua sorellaYasmin; che preghi cinque volte al giorno secondo i dettami del Corano come Khalid Chaouki, venticinquenne giornalista di origine marocchina (Salaam Italia è il libro che ha pubblicato raccontando la sua storia di musulmano italiano) o diserti la moschea come Akram (”la religione in questo momento è in stand-by”), i “ragazzi 2G” si sentono e sono italiani, pur non dimenticando le proprie origini. “In famiglia parliamo italiano. L’arabo è usato dai miei genitori solo quando litigano” racconta Akram. “Io mi sento un albero con le radici in Egitto e il tronco in Italia” spiega Rassmea. “Sono musulmana come mio padre, mangio le lasagne di mia madre, ho avuto un ragazzo italiano per cinque anni, ho frequentato l’Istituto Orientale di Napoli per approfondire la conoscenza e la cultura della mia terra d’origine: più che italiana, mi definirei una nuova cittadina dell’Italia che verrà”.
Perché, inutile negarlo, questi ragazzi sono molto più avanti della legislazione e della burocrazia che spesso li confina in una specie di limbo. A differenza di altri Paesi, per esempio gli Stati Uniti, non basta infatti essere nati in Italia per avere automaticamente la cittadinanza. Per essere cittadini di questo Paese occorre essere nati da genitori italiani. Senza questo requisito occorre dimostrare di essere residenti da almeno dieci anni. Ma quello è solo il punto di partenza per presentare la domanda: “Tali e tanti sono gli ostacoli burocratici che fra la presentazione definitiva e la risposta possono passare anche dieci anni” spiega Paolo Barros. “Questo, del resto, è il tempo che ha impiegato mia madre, collaboratrice familiare, per ottenere quel certificato che sanciva ciò che lei era già da anni, e cioè una cittadina che vive, lavora e contribuisce allo sviluppo di questo Paese”.
Quando finalmente i genitori ottengono il prezioso pezzo di carta, la cittadinanza ricade a cascata sui figli, com’è successo a Paolo. Ma non sempre le persone hanno il tempo, la pazienza e anche la cultura necessari per fronteggiare le lungaggini burocratiche. Così, a una prima generazione di immigrati che in molti casi hanno rinunciato alla cittadinanza preferendo rinnovare, sempre con molte difficoltà, il permesso di lavoro e residenza, ne succede un’altra, quella dei loro figli, più conscia dei propri diritti. “Abbiamo dato vita alla ‘Rete G2′ proprio per condividere fra noi figli di immigrati i problemi non solo burocratici legati alla nostra condizione” dice Mohamed Tailmoun, origini libiche, una laurea in Sociologia, operatore sociale e mediatore culturale nonché portavoce della Rete G2 che da tre anni collega, sul web, in trasmissioni radiofoniche e nella realtà quotidiana, centinaia di ragazzi della seconda generazione. Un’esperienza importante, riconosciuta anche dal Capo dello Stato che qualche settimana fa ha invitato al Quirinale una rappresentanza di esponenti della Rete in occasione della cerimonia di benvenuto ai «nuovi cittadini italiani”.
Oltre alla tutela dei diritti, i giovani figli di immigrati hanno un’altro importante obiettivo, e cioè quello di aiutare gli italiani a conoscere meglio i loro concittadini di diversa origine. Con questo scopo è nato Yalla, il mensile delle seconde generazioni allegato a Vita, settimanale del non profit. “I ragazzi G2 sono dei comunicatori nati” dice Martino Pillitteri, che cura l’inserto al quale collaborano una dozzina di giovani milanesi originari del Mahgreb e di altri Paesi stranieri. “Hanno fatto la sintesi di due mondi e ne hanno tratto un’apertura mentale che gli consente di dialogare con tutti”. Non a caso i ragazzi di seconda generazioni hanno amici italiani, del loro Paese d’origine, di altre nazionalità e diverse nazioni. Come Susan, laurea in Scienze Politiche e giornalista in erba, che il ragazzo l’ha trovato in Spagna e fa la spola fra Roma e Parigi, dove vive lui, ed è da poco tornata dalla Siria, terra dei genitori.
Frequenti sono i legami sentimentali fra ragazzi 2G e coetanei italiani. Il che può generare conflitti familiari: “Mio padre non mi ha parlato per quattro mesi quando ha saputo che mi ero messa con un ragazzo italiano” dice Rassmea. “E anche se con il tempo ha imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo, è stato contento quando la storia è finita”. Il conflitto a volte è anche interiore, soprattutto fra le ragazze: Lubna rimanda il problema a quando incontrerà la persona giusta: “Prima devo trovare la persona che mi completa, che amo e che mi ama, poi si vedrà”. Intanto ha già chiesto lumi a un Muftì in Siria, Paese d’origine dei genitori, sul fatto che non esiste un versetto del Corano che vieti l’unione fra un musulmano e una persona di religione diversa. “Non mi ha saputo rispondere” dice la ragazza con una certa soddisfazione.
Fra i tanti giovani incontrati da Panorama, solo Valentino, che con la sua bellezza e il portamento fiero chissà quanti italici cuori avrà spezzato, non ha mai avuto una ragazza italiana: “Non mi capiscono” taglia corto. In realtà non capiscono l’ostinazione e la determinazione con cui Valentino (ma ha anche un impronunciabile nome africano, Onierhovwo: significa “Dio che risponde alle preghiere”) persegue il suo diritto alla cittadinanza italiana. “Ormai della mia famiglia qui a Roma ci sono soltanto io: frequento la stessa Università di mio padre, ma lui ha trovato lavoro negli Stati Uniti, dove l’hanno raggiunto mia madre e le mie sorelle più piccole. Dei miei 21 anni ne ho vissuti 17 in Italia, ma ancora non ho la cittadinanza, e senza quel pezzo di carta non posso fare molte cose”. Per esempio tesserarsi nella squadra di serie A di basket che pure lo corteggia. Con quella pelle, però, (”la stessa di Gesù, che in occidente viene raffigurato biondo e con gli occhi azzurri, mentre i sacri testi lo descrivono ‘con i piedi di bronzo e i capelli di lana’”, precisa lui, musulmano) nemmeno una carta d’identità italiana lo metterebbe al riparo dai piccoli e grandi sgarbi e pregiudizi quotidiani di cui si sente vittima. Ma chissà che il Dio del suo nome non risponda alle sue preghiere: “In fondo tutto è possibile” ammette con un sorriso. “Obama l’ha dimostrato”.

fonte: www.blog.panorama.it




  • Share: