Dossier. Mi.: Lavoratori a chiamata. 4. Definizioni formali e discriminazioni sostanziali

18
Feb

In questo dossier, pubblichiamo, in 6 puntate, il lavoro di Simona Ciobanu e Zivkica Nedanovska, due mediatrici interculturali di Ravenna, realizzato nel 2009 e dal titolo: Lavoratori a chiamata: i mediatori culturali. 

  1. Introduzione
  2. Il contesto della mediazione culturale in Italia.
  3. Il mediatore culturale straniero: una professione nuova e precaria a rischio di estinzione.
  4. Il mediatore culturale: definizioni formali e discriminazioni sostanziali.
  5. Le difficoltà di una “non professione”: un’agenda frutto dell’esperienza.
  6. Conclusioni. La mediazione: quali prospettive, in positivo? 

 

4. Il mediatore culturale: definizioni formali e discriminazioni sostanziali.

di  Simona Ciobanu

In realtà non esiste molta chiarezza intorno alla figura del mediatore, e ciò sin dalla stessa denominazione. I testi normativi esistenti, infatti, alternano diverse dizioni:

  • mediatore linguistico
  • mediatore culturale
  • mediatore linguistico-culturale
  • mediatore interculturale

I primi a ragionare attorno alle problematiche della mediazione sono stati gli enti e le associazioni del terzo settore che hanno affrontato le problematiche dei processi migratori sin dagli inizi degli anni ottanta. Il terzo settore assume un ruolo di protagonista nell’avvio e nello sviluppo dei servizi di mediazione culturale, portato avanti da tante amministrazioni pubbliche locali per offrire servizi più adeguati agli utenti immigrati. Infatti, nel 57% dei casi è il privato sociale (associazioni, cooperative, organismi di volontariato e fondazioni) il contesto in cui vengono attivati servizi in tal senso. È uno degli aspetti emersi dall’indagine sulla mediazione culturale in Italia condotta nel 2002 dal Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli) in collaborazione con Unimed per conto del Ministero del Welfare.

http://www.edscuola.it/archivio/handicap/mediazione_culturale.htm

Il Cisp ha condotto anche una ricerca sulla descrizione delle esperienze di mediazione, degli enti erogatori di tali servizi e della figura del mediatore, su un campione di 248 unità, pari a circa il 35% dell’universo di riferimento (704). Da tale indagine risulta che la maggioranza dei servizi di mediazione culturale è concentrata al Nord (54,1%) e al Centro (30,3%): una distribuzione territoriale che «rispecchia in larga misura gli insediamenti degli immigrati in Italia». Il servizio si svolge prevalentemente in ambito locale: nel 39% dei casi a livello provinciale/regionale, nel 55,1% a livello distrettuale, municipale/circoscrizionale e cittadino. Quindi sono state censite complessivamente dal Cisp 704 esperienze di mediazione culturale in Italia, «ma il loro numero è di sicuro molto superiore», nota il Cisp, precisando che molte esperienze sfuggono alla rilevazione nazionale «in quanto non esistono centri a livello nazionale e regionale che raccolgano e sistematizzino dati sui servizi di mediazione. Inoltre, in molti casi si tratta di “progetti” o di servizi a termine, per cui al momento della rilevazione possono risultare cessati o prossimi alla chiusura». E si assiste anche a «una vasta gamma di nomenclature che a volte possono rientrare e altre no nella categoria di mediazione e di mediatori: promotori, educatori interculturali, operatori per stranieri, facilitatori, ecc.». La ricerca, quindi, è circoscritta a quei servizi che in maniera esplicita fanno riferimento al concetto di mediazione culturale, concepiti sia per facilitare «l’accesso degli stranieri all’esercizio dei diritti fondamentali sia per la trasformazione della società, con l’incontro di culture diverse che si mescolano e si modificano reciprocamente», secondo quanto afferma l’Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri, istituito presso il Cnel.

Anche se l’Italia si confronta con l’immigrazione ormai da vent’anni, si è cercato di dare una risposta alla necessità di integrazione dei nuovi cittadini di volta in volta e non in maniera sistematica e organica. In questo contesto si colloca anche la figura del mediatore, che secondo alcuni autori rappresenta “la professione del futuro” ma che attualmente viene svolta come secondo lavoro non essendo tuttora legittimata come professione.

Nessuno sa quanti sono i mediatori, dove operano esattamente né con quali modalità, ma sempre più li si ritrova nelle istituzioni italiane, con incarichi di volta in volta differenti. Ospedali, questure, scuole, carceri, comuni, ministeri, servizi sociali: queste e altre sono le sedi in cui essi operano a stretto contatto con gli immigrati. La professione esiste in tutta Italia, ma i curriculum sono differenti da regione a regione, anche se leggermente.

Frutto di un’Italia sempre più multiculturale, questa è una professione in espansione e che sfugge alle definizioni. Spesso straniero egli stesso, il mediatore non di rado ha iniziato ad aiutare altri immigrati muovendosi nel mondo del volontariato, per poi formarsi con uno o più corsi professionali. La necessità di utilizzare le persone straniere chiamandole appunto “mediatori culturali”, per rispondere ad un’esigenza che si pensava essere momentanea ha discreditato fin dall’inizio questa figura. Ciò in quanto alle persone chiamate a svolgere questo tipo di attività professionale non gli è stato chiesto di presentare un determinato percorso di studio e/o professionale svolto nel paese di origine: l’unico criterio di selezione era quello di “conoscere la lingua” per cui si richiedeva l’intervento. Questo tipo di approccio alla nuova professione non ha sicuramente avvantaggiato gli esperti della mediazione che si trovano ancora oggi alle prese con chi pensa tuttora che la mediazione debba essere realizzata da una persona madrelingua e basta.

Nonostante in questo campo si lavori da almeno 10 anni, ma solo negli ultimi tempi le istituzioni sono intervenute cercando di definire un quadro comune ed un orizzonte entro cui collocare la figura del mediatore. I primi corsi di formazione specifici per mediatori erano organizzati da associazioni del terzo settore a cui si sono successivamente aggiunti enti di formazione professionale che hanno ottenuto dalle diverse autorità regionali il riconoscimento di crediti formativi per i partecipanti, pur in assenza di un formale riconoscimento della “professione” del mediatore. Successivamente, con la riforma dei curricoli universitari, si è allargata l’offerta formativa. L’aumento dei processi formativi e dei soggetti che offrono formazione per quella figura ha comportato anche una ridiscussione riferita ai soggetti che possono essere ammessi a simili percorsi. Se infatti inizialmente il mediatore è stato pensato solo come straniero (con alcune competenze e qualità definite) oggi invece si inizia a ritenere possibile l’accesso alla professione di mediatore anche per cittadini italiani o magari li si privilegia involontariamente richiedendo un titolo di studio di cui lo straniero non possiede a rigore di legge l’equivalente. Ma prima di entrare nel merito della questione di chi dovrebbe svolgere questa professione, occorre soffermarsi sulle ragioni che mi spingono a considerare il mediatore straniero come figura professionalmente discriminata:

a) Emergenza.

Dopo vent’anni in qui l’Italia si confronta con il fenomeno dell’immigrazione si parla ancora di “progetti sperimentali” quando si parla della mediazione e non di un servizio, sembra perciò che non sia ancora superato il carattere originario di progetto emergenziale o sperimentale. Il servizio di mediazione, osserva il Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli) viene ancora largamente improntato all’accoglienza, all’informazione e all’orientamento degli stranieri da parte dei servizi pubblici, come nelle fasi iniziali e basilari del rapporto con utenti stranieri e servizi pubblici. Un’impostazione che rispecchia «la situazione delle politiche immigratorie, ancora fortemente impegnate sul fronte dell’emergenza», nel senso di garantire, da parte delle istituzioni pubbliche, l’accoglienza e l’accesso ai servizi di base ai migranti e di ricorrere ai mediatori per far fronte a situazioni problematiche, ma non per i servizi di routine. È vero che l’Italia è diventata terra di immigrazione da circa vent’anni, ma ai bisogni dei nuovi cittadini si dà sempre una risposta emergenziale, senza pensare a trovare altre soluzioni a lungo termine.

b) Assenza di regolamentazione.

La professione del mediatore, pur discussa tante volte, non è ancora regolamentata nell’albo delle professioni, perciò non ha una sua legittimità di esistere: la mediazione non soltanto «non appare ancora pienamente radicata e legittimata nelle istituzioni che erogano servizi ai cittadini stranieri» ma permangono tuttora interi settori della società e degli spazi di interazione culturale «sguarniti di servizi di supporto alla comunicazione e all’integrazione reciproca tra immigrati e comunità di accoglienza, come ad esempio il mondo del lavoro» osserva l’indagine condotta dal Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli). Non esiste tuttora un pieno riconoscimento della figura professionale del mediatore culturale, anche se si deve necessariamente pensare innanzitutto a regolamentare l’utilizzo di questa figura professionale, in quanto è ipotizzabile una maggiore espansione, come già è accaduto in molti altri paesi europei.

c) Profilo professionale indifferenziato.

Non si dovrebbe comunque parlare di una sola figura di “mediatore culturale” in quanto tale figura non può lavorare nei più svariati ambiti svolgendo ogniqualvolta compiti diversi, si dovrebbe fare necessariamente distinzione tra il mediatore che opera nell’ambito scolastico ed educativo, quello che opera nell’ambito sanitario, quello che opera nell’ambito giuridico, ed il mediatore che opera nell’ambito dell’assistenza sociale. Ci sono competenze diverse messe in atto per ogni ramo della suddetta professione, e la distinzione è più che necessaria.

d) Precarietà.

I contratti stipulati a questi professionisti sono i più precari in assoluto:“contratto di collaborazione occasionale”, “contratto a progetto” senza alcuna copertura e senza alcuna continuità. Le tariffe applicate sono assolutamente inadatte ad una professione in cui spesso si offre un servizio di consulenza alle istituzioni, che viene pagato con cifre irrisorie e con la modalità “a ore”. Raramente il mediatore culturale è un lavoratore dipendente: nella maggior parte dei casi viene impiegato con contratti di collaborazione professionale, un freelance assunto a progetto. Vi è quindi l’assoluta mancanza di sicurezza e conseguentemente un forte turn over e abbandono del ruolo a seguito di nuove e meno precarie proposte di lavoro.

Ci sono alcuni comuni o regioni che nel rapportarsi alla mediazione scelgono di appaltare il servizio alle associazioni o cooperative che a propria volta scelgono il tipo di contratto da stipulare con i loro mediatori e ci sono comuni e regioni che si avvalgano direttamente della prestazione dei mediatori, ma in nessun caso i mediatori sono dipendenti con uno stipendio mensile. Ma vediamo nello specifico cosa si intende per “contratto di collaborazione occasionale”, e “contratto a progetto” essendo queste due forme di contratto maggiormente utilizzate. Elementi che accomunano i due tipi di contratto:

  • non sono vincolati da un lavoro subordinato perciò non sono dipendenti
  • la “flessibilità” riguardo l’orario lavorativo e non solo
  • l’assoluto precariato
  • nessuna garanzia riguardo alla continuità lavorativa
  • il contratto non può valere come garanzia nel caso in cui si voglia chiedere un prestito o un mutuo.
  • non si ha diritto alle ferie, a permessi retribuiti e non, alla malattia, alle festività, al trattamento di fine rapporto, all’indennità di disoccupazione.

Che cosa si intende per “flessibilità” introdotta dalla legge 30/2003 conosciuta anche come “legge Biagi”?

Alla voce «Flessibilità» in Wikipedia, si legge:
«La flessibilità è il concetto in base al quale un lavoratore non rimane costantemente ancorato al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, ma muta più volte, nell’arco della propria vita, l’attività occupazionale e/o il datore di lavoro. In un’ottica evolutiva e di accrescimento, la flessibilità dovrebbe prevedere un costante miglioramento delle conoscenze del lavoratore e di conseguenza del livello occupazionale raggiunto, sia per quanto riguarda il versante economico sia per quanto riguarda quello delle competenze professionali. Il concetto di flessibilità rischia invece di degenerare nel concetto di precariato quando si rilevano contemporaneamente, ed involontariamente da parte del lavoratore, più fattori di instabilità quali ad esempio la mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro e la mancanza di un reddito adeguato con il quale pianificare la propria vita presente e futura.

L’introduzione, nell’ambito del mercato del lavoro, di strumenti per facilitare la flessibilità può essere considerato come uno dei mezzi mirati ad incrementare l’occupazione. Secondo una tale visione, le aziende, facilitate dall’esistenza di contratti poco vincolanti e meno costosi a livello previdenziale, sarebbero incentivate a richiedere costantemente al mercato del lavoro tutte quelle figure professionali di cui hanno bisogno in un determinato momento, senza essere costrette a tenerle sotto contratto oltre il dovuto. In questo modo, la domanda di occupazione sul mercato del lavoro verrebbe sbloccata e si produrrebbe un circolo virtuoso destinato a incrementare la richiesta. In realtà, la reale portata di una tale valutazione è dubbia: spesso i contratti flessibili vengono usati solo come strumento di risparmio da parte delle aziende, ossia spesso come uno strumento di crescita del precariato».    http://it.wikipedia.org/wiki/Flessibilit%C3%A0_(lavoro)

E ancora, alla voce “ precariato “ leggiamo: « Con il termine precariato si intende, generalmente, la condizione di quelle persone che vivono, involontariamente, in una situazione lavorativa che rileva, contemporaneamente, due fattori di insicurezza: mancanza di continuità nella partecipazione al mercato del lavoro e mancanza di un reddito adeguato su cui poter contare per pianificare la propria vita presente e futura; con questo termine si intende fare altresì riferimento al fenomeno degenerativo dei contratti c.d. flessibili (part-time, contratti a termine, lavoro parasubordinato), rilevando tuttavia che flessibilità e precariato sono due fenomeni indirettamente correlati, ma non sovrapponibili e assimilabili, e al cosiddetto lavoro nero.

All’interno degli schemi contrattuali c.d. flessibili il precariato emerge quando si rilevano, contemporaneamente, più fattori discriminanti rispetto alla durata, alla copertura assicurativa, alla sicurezza sociale, ai diritti, all’assenza o meno dei meccanismi di anzianità e di Tfr, al quantum del compenso.

La presenza in Italia di redditi mediamente più bassi, sia in valore assoluto che in termini di potere d’acquisto, rispetto per es. agli altri paesi dell’Unione Europea pre-2004 o agli USA, che risulta solitamente ancora più accentuata proprio tra i lavoratori precari, comporta peraltro l’impossibilità di accumulare sufficienti risparmi per affrontare in sicurezza i periodi di disoccupazione e ricerca di nuovo lavoro successivi ad un mancato rinnovo del contratto (condizione invece abituale in quei paesi dove i redditi sono mediamente più alti soprattutto tra i lavoratori flessibili), esponendo quindi il lavoratore al rischio di dover accettare giocoforza lavori ancora più flessibili e meno remunerativi dei precedenti pur di avere un reddito con cui provvedere alla propria sussistenza, creando quindi una forma di retroazione che accentua ulteriormente l’insicurezza e gli altri problemi derivanti dalla precarietà.

Il tema del precariato è di difficile misurazione statistica a causa di vari elementi, primo fra tutti il fatto che nel momento in cui la flessibilità nel mercato del lavoro ha iniziato ad aumentare non erano ancora disponibili specifici strumenti di rilevazione che consentissero di valutare i possibili fenomeni degenerativi di questa realtà. È questa la valutazione da cui occorre partire per capire il motivo delle differenti opinioni e valutazioni sul fenomeno, anche perché non esiste ancora una definizione scientifica o pacifica di precariato che metta d’accordo le varie sensibilità. »

Come descrivere in maniera reale e comprensibile il lavoro dei mediatori se non attraverso le parole chiave «flessibilità e precariato», nel significato appena citato?

http://it.wikipedia.org/wiki/Precariato

e) Ricatto morale.

Tendenza a chiedere e pretendere dai mediatori che svolgano più ore, possibilmente non retribuite, in quanto appartengono allo stesso Paese o comunque utilizzano la stessa matrice linguistica con l’utenza. Sembra, infatti, che si stia facendo una specie di “favore” ai mediatori stranieri nell’ impiegarli in questo tipo di attività, e non si riconoscono loro le competenze professionali acquisite.

Alla luce di quanto descritto sopra ci si domanda perché si discrimini tanto questa figura così richiesta e secondo alcuni studiosi indispensabile? Sarà perché sono in maggioranza gli stranieri a fare questo tipo di lavoro o sarà perché sono maggiormente le donne ad essere impiegate in questi ambiti? Ci siamo ormai “abituati” alla discriminazione verso gli stranieri, ma bisognerebbe guardare piuttosto al valore del lavoro e non alle nazionalità delle persone.

Simona Ciobanu




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