Latifa Tazzit, Torino. Mediazione e educazione per le nuove generazioni

18
Feb

Riportiamo di seguito l’intervista a Latifa Tazzit, mediatrice interculturale marocchina che lavora presso il MEIC e con l’Associazione AFAQ, dedicando la propria esperienza e le proprie conoscenze al difficile percorso di integrazione vissuto da molti migranti.

Come ha capito che la sua strada era quella della mediazione culturale?

In Marocco insegnavo come maestra e poi nel 2003 mi sono trasferita a Torino. Arrivando qui in Italia ho avuto delle difficoltà iniziali, dipendevo molto da mio marito che doveva sempre accompagnarmi e aiutarmi. Poi ho incontrato una mediatrice culturale e per me questo incontro è stato molto importante perché quella mediatrice è stata un punto di riferimento ma anche di ispirazione. Mi piaceva molto questa figura così disponibile, pronta ad aiutare chi è in difficoltà, anche e non solo con problemi linguistici. Però nel 2004 ho avuto la mia prima figlia e dopo due anni la seconda per cui ho aspettato un po’ prima di fare il corso da mediatrice. Anche se la figura del mediatore è sempre un po’ tornata nella mia vita, anche in quel periodo. Frequentavo dei corsi di lingua italiana e anche lì c’erano delle mediatrici. Così mi sono informata e mi sono iscritta al corso, ma dopo il 2006 non c’erano finanziamenti per i corsi. Così ho dovuto aspettare il 2012, quando il Rebaudengo ha proposto un corso. Mi sono subito iscritta, ho superato il test ed ero molto contenta. Anche se avevo avuto già qualche esperienza da mediatrice, nel senso che in maniera informale collaboravo con le mediatrici come educatrice o conduttrice di un gruppo di discussione. Ho anche fatto dei corsi di formazione e ho partecipato al progetto ‘Torino la mia città’, un progetto di percorso per la cittadinanza. Lì ho fatto molte gite, abbiamo visitato la città in modo che potessimo orientarci all’interno di Torino. Dopo il corso sono tornata a lavorare con il Meic. Adesso lavoro alla circoscrizione 7. La domenica lavoro con un gruppo di bambini, figli di genitori arabi che però non parlano arabo, e io faccio il corso di lingua araba per le seconde generazioni.

Secondo lei quali sono i punti di forza di questo mestiere?

Sicuramente la gratificazione e l’utilità di questa figura. Se si lavora bene si vedono i frutti ed è molto bello sia per noi mediatori, sia per gli utenti. Per esempio ho lavorato con una ragazza che era arrivata in Italia clandestinamente e aveva subito molte violenze durante il viaggio. Grazie ai mediatori, agli psicologi, agli antropologi la ragazza è diventata più allegra, sta pensando alla sua vita, al futuro. Questo è un grande punto di forza del nostro mestiere. Poi questo lavoro ci permette di creare molti rapporti, relazioni sociali che arricchiscono la nostra vita.

Quali sono secondo lei i punti deboli?

Sicuramente è molto difficile il ruolo del mediatore, per cui molto spesso possono nascere rapporti conflittuali tra il mediatore e l’istituto per cui si lavora o tra il mediatore e l’utente. A volte è difficile anche gestire delle conflittualità all’interno dei mediatori stessi. Per esempio non tutti i mediatori che parlano arabo pensano allo stesso modo; esistono differenze culturali anche profonde tra un marocchino, un egiziano, un siriano… Un altro problema importante della professione è che non viene riconosciuta. Molta gente non sa neanche quale sia il ruolo del mediatore. Molti ci scambiano per interpreti ed è dura dover spiegare ogni volta che il nostro è un lavoro diverso, più lungo e più profondo. A volte anche gente che ha a che fare con la migrazione, con i migranti, non conosce questa figura. L’ideale sarebbe che si costituisse un albo, che si regolamentasse la nostra situazione insomma. È molto importante anche lavorare in rete e unirci per cercare di capire cosa si può e si deve fare.

Quali prospettive future immagina per la professione?

Bisogna sperare che la funzione del mediatore sia sempre utile, o comunque venga percepita come tale. Per esempio i ragazzi, figli di immigrati sul territorio, parlano italiano benissimo ma non per questo non hanno bisogno della mediazione interculturale. Anche se il ragazzo è cresciuto in Italia, magari a casa ha avuto una educazione marocchina, piuttosto che albanese, piuttosto che cinese… In questo senso bisogna che ci sia un lavoro di squadra: serve il mediatore interculturale, serve lo psicologo, serve l’antropologo. Bisogna essere insieme per fare un buon lavoro.




  • Share: