Indagine Isfol: 4,5 milioni di precari, 1,3 milioni di «finti autonomi» (e solo 376mila quelli «veri»)
Atipici, flessibili, precari. Termini ormai sinonimi, nel linguaggio corrente, ma che denotano situazioni diverse, solo in parte convergenti. Situazioni limite, di sfruttamento intensivo, quasi sempre. La preoccupazione dell’Isfol – nel presentare i risultati dell’ultima indagine sul lavoro atipico – è di tenerli ben distinti, non aggravare la confusione, perché solo se si riesce a definire un quadro scientifico «condiviso» si può poi discutere pubblicamente cum grano salis.
Bisogna intanto distinguere tra la «forma» di questo tipo di lavoro e la sua «sostanza», per capire quanto l’atipicità sia una conseguenza «necessaria» delle trasformazioni del processo produttivo – come arringano tutti i giorni gli editoriali di Confindustria, e non solo loro – e quanto rappresentino una comoda scorciatoia per impiegare lavoro meno pagato e per nulla tutelato.
I nuovi indicatori individuati dall’Isfol illuminano la realtà complessa nell’universo «precario» in modo impietoso, a partire dalle dimensioni: un milione e 800mila persone (l’8,3%) soltanto quelli «a termine», un milione e 276mila (il 5,6) i «finti autonomi», 346mila (l’1,5) gli apprendisti. Sommati danno il 15,2% dell’occupazione totale. Ma se, come sarebbe logico, vi si aggiungono i part time «involontari» (ovvero imposti dalle imprese, in 32 casi su 100) si arriva al 17,8%. Ovvero da 3,5 a 4,5 milioni e mezzo di persone in carne e ossa.
L’uso di «fattori di subordinazione» (scelta della forma contrattuale, numero di commitenti, presenza regolare in azienda, presenza di un orario giornaliero da rispettare, uso di mezzi e strumenti aziendali, numero di rinnovi con l’identico datore di lavoro) permette di distinguere nettamente i parasubordinati (a tutti gli effetti «dipendenti» da un’impresa, anche se la forma contrattuale è diversa) dagli atipici veri e propri. Scopriamo così quel che per esperienza sapevamo già: la forma contrattuale è imposta dall’azienda al 65% dei co.co.co, a 55 collaboratori occasionali su 100. L’ 80% lavora per un solo committente (50% nel caso delle partite Iva); in percentuali simili sono obbligati alla presenza in azienda,così come nell; utilizzo di materiali e macchinari aziendali. Solo le«partite Iva» mostrano percentuali più basse, ma comunque significative (il 48% usa mezzi dell’ azienda anche se solo il 20 ha un orarionquotidiano);indagine non distingue tra settore pubblico e settore privato (maviene annunciato a breve un report dedicato), e quindi si può solo intuitivamente dedurre che nel privato possono, almeno in parte, esistere ragioni «strutturali» per il ricorso a forme di lavoro atipico (commesse o assenze temporanee, stagionalità, picchi di produzione),mentre nel pubblico agisce l’ assurdo «divieto di assunzione» risalentenormai a 10 anni fa. Ma le risposte dei 40.000 intervistati fanno giustizia di quasi tutte le spiegazioni incentrate sulle «novità» delncapitalismo attuale: il 28% ritiene infatti che il contratto a termine(o assimilabile) sia il «preludio a una trasformazione in contratto a tempo indeterminato»; il 24% non vi trova nessuna ragione particolare. Sostituzioni (10%), stagionalità (17) e durata della commessa (12)ncoprono a mala pena il 39% del campione. Il dato più significativo è in definitiva che oltre il 50% «ritiene chenla natura temporanea del proprio contratto non sia dettata da reali esigenze produttive». Ci troviamo perciò davanti a una quota rilevante di «lavoro debole» che non ha alcuna giustificazione, se non quella -imprenditoriale – di massimizzare il profitto ricorrendo a manodoperanpagata poco e senza quasi nessuna tutela (a cominciare dal divieto di licenziamento). Una manodopera soprattutto giovane, per lo piùnfemminile, che perde man mano la possibilità di vedersi riconoscere le competenze acquisite durante i periodi lavorativi. Perché queste forme contrattuali sono diffuse quasi esclusivamente – sul piano quantitativo – per i lavori «generici», a basso contenuto professionale; anche seninveste sempre più spesso settori ritenuti «altamente qualificati» (come i giornalisti, per esempio), ma in evidente affanno.” all’81% dei co.co.pro, a 55 collaboratori occasionali su 100. L’80% lavora per un solo committente (50% nel caso delle partite Iva); in percentuali simili sono obbligati alla presenza in azienda, così come nell’utilizzo di materiali e macchinari aziendali. Solo le «partite Iva» mostrano percentuali più basse, ma comunque significative (il 48% usa mezzi dell’azienda anche se solo il 20 ha un orario quotidiano).
L’indagine non distingue tra settore pubblico e settore privato (ma viene annunciato a breve un report dedicato), e quindi si può solo intuitivamente dedurre che nel privato possono, almeno in parte, esistere ragioni «strutturali» per il ricorso a forme di lavoro atipico (commesse o assenze temporanee, stagionalità, picchi di produzione), mentre nel pubblico agisce l’assurdo «divieto di assunzione» risalente ormai a 10 anni fa. Ma le risposte dei 40.000 intervistati fanno giustizia di quasi tutte le spiegazioni incentrate sulle «novità» del capitalismo attuale: il 28% ritiene infatti che il contratto a termine (o assimilabile) sia il «preludio a una trasformazione in contratto a tempo indeterminato»; il 24% non vi trova nessuna ragione particolare. Sostituzioni (10%), stagionalità (17) e durata della commessa (12) coprono a mala pena il 39% del campione.
Il dato più significativo è in definitiva che oltre il 50% «ritiene che la natura temporanea del proprio contratto non sia dettata da reali esigenze produttive». Ci troviamo perciò davanti a una quota rilevante di «lavoro debole» che non ha alcuna giustificazione, se non quella – imprenditoriale – di massimizzare il profitto ricorrendo a manodopera pagata poco e senza quasi nessuna tutela (a cominciare dal divieto di licenziamento). Una manodopera soprattutto giovane, per lo più femminile, che perde man mano la possibilità di vedersi riconoscere le competenze acquisite durante i periodi lavorativi. Perché queste forme contrattuali sono diffuse quasi esclusivamente – sul piano quantitativo – per i lavori «generici», a basso contenuto professionale; anche se investe sempre più spesso settori ritenuti «altamente qualificati» (come i giornalisti, per esempio), ma in evidente affanno. L’impiego di forme contrattuali «atipiche» permette insomma all’ impresa di selezionare e disciplinare direttamente i giovani da inserire nella produzione; ma disciplina, indirettamente, anche il rimanente 72% di «lavoro standard».
Francesco Piccioni per “Il Manifesto” – 30 novembre 2007