Il mediatore interculturale in ambito sanitario

18
Feb

Tra cure scientifiche e guarigioni tradizionali.

Un contributo di Maria Mihaela Barbieru*

Che egli si segga nei pressi di un crocevia, e quando vede una grossa formica che trasporta un peso, la prenda e la metta in un tubo di rame, ne chiuda le estremità con il piombo e le sigilli sessanta volte. Poi agiti il tubo, e lo muova in avanti ed indietro esclamandole seguenti parole “che il tuo fardello gravi su di me ed il mio (cioè la febbre) su di te”

L’idea che la malattia sia un oggetto materiale e che possa trasferirsi da un individuo all’altro è fortemente sostenuta anche dai Talmud nella cura suggerita per la febbre.

Non tutti i malati accettano il punto di vista scientifico del medico o dello psicoterapeuta. Alcuni, provenienti da culture tradizionali, rappresentano la malattia come l’intrusione di un oggetto esterno che è penetrato nel corpo alla loro insaputa. E che questi oggetti esterni non causano la malattia, essi sono la malattia stessa. Secondo le culture tradizionali del Sudafrica, le procedure da utilizzare per curare consistono nella rimozione di tali oggetti, animati o inanimati, dal corpo dei pazienti.

Attenzione, però! Una volta espulsi, quegli oggetti estranei continuano a vagare nell’aria e possono introdursi in tutti gli individui che ne vengono a contatto. Concetto molto simile, d’altronde, al modo in cui la scienza medica considera le malattie infettive; sennonché le culture del Sudafrica estendono questa credenza a tutte le malattie, incluse quelle psichiatriche. Sappiamo che molte delle malattie psichiatriche non presentano alcun pericolo di contagio.

Alcune culture considerano che le malattie sono causate dalla presenza di spiriti maligni che devono essere costretti ad abbandonare il corpo del malato.

In Thailandia, per esempio, si crede che questo avvenga facendo impacchi di riso su varie parti del corpo, impacchi che saranno subito buttati via, indicando che gli spiriti sono scomparsi. Per la durata del processo di guarigione, il malato deve pregare insieme al suo guaritore, invocando i nomi degli spiriti intrusi.

Gli eschimesi dell’Alaska considerano che la follia e gli attacchi isterici siano dovuti all’intrusione di spiriti nel corpo del malato.

I guaritori etiopici, nel loro processo di guarigione, afferrano una gallina, la fanno roteare in aria sulla testa del malato, cioè del posseduto, per poi scagliarla alla terra. Se la gallina muore subito, ciò è un buon segno e vuol dire che  lo Zarr o il Buda/Bouda hanno attraversato il corpo del passero e ne hanno causato la morte.

Gli ebrei yemeniti considerano che alcune malattie mentali siano causate dalla presenza degli shedim, spiriti che prendono possesso della mente del malato. Solo i più potenti dei guaritori potranno esorcizzare tali spiriti e ridare la salute al paziente.

I guaritori degli Yoruba della Nigeria praticano una cerimonia particolare per guarire dalla psicosi: la paziente, vestita di bianco, viene fatta immergere fino alla vita in un fiume, i capelli le vengono tagliati ed il corpo strofinato con tre colombe; così, il male viene portato via dal fiume nei corpi delle colombe e nella veste. Chi toccherà questi oggetti sarà posseduto dallo stesso male.

Gli esempi di sopra rispecchiano alcune credenze, alcuni fantasmi che accompagnano il migrante nell’incontro con il medico e con la medicina scientifica di cui il mediatore interculturale dovrebbe essere pienamente consapevole ed informato. Una conoscenza approfondita della cultura aiuterebbe il mediatore a comprendere il comportamento ostile del malato verso la cura suggerita dal medico. Perché nella sua mente, il malato non ha bisogno di un medico e, quindi, di una cura farmacologica, bensì di un guaritore e di una guarigione identici a quelli che si ricorda aver visto nel suo paese di origine.

Nell’incontro o nel colloquio medico – paziente, il mediatore dovrebbe aver presente che il migrante si porta appresso, oltre lo shock culturale, perdite, speranze e rigetti, desideri e timori, rabbie, frustrazioni, costante protesta contro l’ingiustizia. L’espressione di queste emozioni contrastate e confuse, spesso vissute come pericolose o non consentite, configura uno dei ruoli preponderanti del mediatore interculturale, che si situa sulla soglia, su uno spazio terzo, condividendo con il migrante le estraneità e lo sradicamento e con il medico alcune modalità di integrazione, di cura e di partecipazione nell’operatività sociale.

In quel momento, il dialogo tradizionale si trasforma in un delicato “trialogo” o triade conversazionale. In alcuni momenti, il medico parla col mediatore, trasmettendogli un messaggio che non è indirizzato a lui, bensì al paziente o alla sua famiglia. Mentre il paziente ascolta, consapevole che si sta parlando di lui, in questa situazione di due ed uno.

 

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(*)- Maria Mihaela Barbieru. 

Laureata in Filologia – Lingue Romanze, master conseguito presso l’Università degli Studi di Verona in “Intercultural Competence and Management – Comunicazione, gestione dei conflitti e mediazione interculturale in ambito aziendale, educativo, sociosanitario, giuridico, dei mass media e per l’italiano L2”, iscritta all’Albo dei Periti Tecnici e CTU presso i Tribunali di Milano e Monza, mi occupo di traduzioni giurate ed interpretariato nonché comunicazione e mediazione interculturale, docenza e consulenza linguistica aziendale.

Info: mbarbieru@hotmail.com




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