La legge è uguali per tutti, anche per me che appartengo a due paesi che amo: Grisjana Driza, studentessa del Liceo Linguistico racconta.
Non mi ricordo esattamente come sono arrivata qui, anche perché avevo due anni. Non mi sono mai interessata di questo lungo viaggio finché, un giorno, la mia maestra delle elementari mi ha chiesto di parlare di me e di come sono arrivata qui. Ho raccontato di come mio padre ha raggiunto le sponde dell’Italia, di come abbia lasciato la sua famiglia ed abbia deciso di intraprendere un lungo viaggio per una vita migliore.
Non ricordo precisamente l’anno del suo arrivo ma so che è stato un viaggio doloroso e difficile: ha lasciato sua moglie, mia madre, da sola con me ed è partito con i parenti di mia madre.
Alcune volte mi racconta di come ha affrontato il tutto, di come un giovane lui è riuscito a non farsi rimandare indietro e di come ha dovuto rimboccarsi le maniche.
‘Non sapevo una parola, all’epoca, e quando lavoravo era difficile. Mi chiedevano il martello ed io passavo il cacciavite. Delle volte sentivo pronunciare le parole: ‘albanese di merda’ ma stavo zitto, dovevo portare la mia famiglia qui e non potevo rischiare.’ Eppure, nonostante sappia di come mio padre abbia affrontato il viaggio di come abbia vissuto con il fratello di mia madre e con il marito ed i figli della sorella di mio padre, non ho mai davvero raccontato questa storia a nessuno. Nessuno capirebbe.
‘Sono Grisjana, ho sette anni e sono nata in Albania’ ecco ciò che ho detto. Alle elementari non è mai stato un problema: la mia classe era multiculturale e le maestre adoravo scoprire cose nuove di noi e della nostra cultura d’appartenenza. Crescendo, però, ho compreso di come il mondo sia un posto strano: parlare due lingue è ritenuto meraviglioso, eppure parlare una lingua dell’est non è così affascinante di come parlare l’inglese o il francese. L’albanese non era ritenuto così speciale, veniva identificato come una lingua sporca.
È stato alle medie che ho compreso quanto diversa fossi, nonostante fossi un essere umano come loro. Le prime cotte sono sempre traumatiche: non sai mai come comportarti, cosa dire e cosa non dire. La mia è stata diversa. Avevo all’incirca dodici/tredici anni e mi ritenevo inferiore alle mie amiche ma non perché fossi meno carina di loro. Mi sentivo inferiore perché ero albanese, questo perché il ragazzino per cui avevo una cotta mi riteneva abbastanza carina per tenergli la mano in corridoio ma non ero italiana. Chissà cosa significa essere italiana perché, a quanto pare, non basta parlare correttamente la lingua, con addirittura un accento piemontese, avere le loro usanze, mangiare i piatti tipici e soprattutto frequentare la scuola qui.
Non posso ancora definirmi italiana.
Tutti noi abbiamo affrontato il nostro primo esame in terza media, lasciando che l’ansia ci logorasse gli organi interni, che l’ossigeno non raggiungesse i polmoni ed il cervello e che ci mangiassimo le unghie. Era il 13 giugno 2013 ed eravamo in classe, stranamente attaccati perché così voleva il commissario, mentre aspettavamo che le tracce venissero consegnate. Il brusio che noi tutti stavamo creando cessò immediatamente, questo perché era entrato un signore che nessuno aveva mai visto. La mia professoressa d’inglese di allora è corso subito a salutarlo ed a presentarlo a tutti noi come il commissario d’esame, colui che avrebbe controllato l’esito di ogni nostra prova.
L’uomo ha subito incominciato a spiegare come funziona un vero esame ed io ho appoggiato la testa sul banco, cercando di calmare la mia ansia. Qualche minuto dopo, però, ventitré persone hanno puntato gli occhi nella mia direzione e mi sono alzata, pensando di essere nei guai per la mia grave postura.
‘Gli stranieri sono persone che rovinano il nostro paese, in particolare gli albanesi. Quel paese sforna solo puttane e criminali.’
Le parole erano più adeguate al contesto ma era ciò che quell’uomo sconosciuto, per il quale dovevo portare rispetto, aveva detto. Ho lasciato scorrere, non era importante in quel momento.
Mia madre, però, non voleva lasciar scorrere ma l’ho fermata, un po’ perché avevo paura che mi bocciassero ed un po’ perché sapevo di essere migliore di lui e che potevo essere superiore.
Successivamente i professori si sono scusati, definendomi matura per la mia età e che quel signore era vecchio e non comprendeva ciò che diceva.
Ho pensato che nella nuova scuola sarebbe stato diverso perché ero in città e la città è diversa dal paesino.
Asti, però, è piccola come città ed è un posto chiuso dove tutti parlano.
Il liceo non è stato così traumatico perché riuscivo a studiare e mi ero procurata nuovi amici, tutto sembrava così calmo e tranquillo e non importava a nessuno che fossi albanese.
Poi qualcosa ha iniziato a rompersi.
La bolla che mi ero costruita attorno ha iniziato a creparsi e nell’estate tra la seconda e terza superiore ho capito un po’ di cose.
Le stesse persone che definivo amici mettevano in atto commenti razzisti, credendoli divertenti.
‘Sei albanese, ruba qualcosa per noi.’ ‘Sei albanese, la vodka per te è acqua.’ Mischiavano addirittura gli stereotipi di diversi paesi, pur di fare una battuta che credevano divertente.
Ho sempre creduto in un mondo migliore ed è per questo che, dopo il liceo, vorrei studiare giurisprudenza. Un sogno che esiste dall’età di otto anni, da quando ancora non capivo cosa fosse la legge e chi davvero tutelasse. ‘La legge è uguale per tutti’, frase scritta su ogni singolo tribunale italiano.
La legge è uguale per tutti, anche per me che appartengo a due paesi che amo.