Marcia Hadad, Torino. “La professione ha bisogno di riconoscimento e standard formativi nazionali”

18
Feb

Abbiamo fatto una chiacchierata con Marcia Hadad, mediatrice interculturale brasiliana referente dell’associazione Alma Mater all’interno della rete regionale RMI Piemonte. Ha collaborato a diversi progetti del Comune di Torino per rifugiati e richiedenti asilo, ha partecipato come esperta del Comitato Consultivo del Centro di coordinamento contro la violenza alle donne e all’evento “Voci nel silenzio – La violenza nega l’esistenza”. Marcia vanta decennale esperienza nel campo del contrasto alla violenza verso le fasce più deboli della popolazione immigrata (donne, minori, disabili, ecc). Si è occupata di progetti riguardanti la prostituzione e la tratta delle donne e attualmente collabora con l’Ufficio Minori del Comune di Torino.

– Come ha capito che la sua strada era quella della mediazione culturale?

Ho cominciato il corso nel 1993, anche se già nel ’92 avevo chiesto in giro informazioni sulla figura del mediatore ma all’epoca nessuno conosceva bene questa professione. Così nel ’93 ho frequentato il corso, nel ’94 l’ho terminato e da lì ho cominciato soprattutto con il volontariato. Poi con alcuni compagni di classe abbiamo creato una associazione e abbiamo cominciato a vincere degli appalti e quindi a lavorare.

– Come vede la professione del mediatore oggi?
Penso che oggi si sappia meglio cosa sia un mediatore, mentre allora no. Oggi quindi c’è più informazione, anche se non è possibile parlare ancora di un vero e proprio riconoscimento. Nel senso che molti enti accettano e collaborano con la figura del mediatori, mentre altri non riescono. È difficile trovare una sintonia a volte tra l’operatore e il mediatore e viceversa. Lavorare all’interno di istituzioni pubbliche è molto difficile, perchè ognuna ha le proprie regole da rispettare. Chi fa mediazione quindi deve prima conoscere, poi accettare quelle determinate regole, non può agire secondo il proprio istinto.

– Quali sono i problemi riscontrati più frequentemente dalla comunità brasiliana a Torino?
Ultimamente è aumentato il disagio all’interno di matrimoni misti. Molte donne brasiliane hanno difficoltà con mariti italiani. Però non è possibile dire con certezza quali siano i problemi più frequenti perchè la comunità brasiliana spesso non chiede aiuto. È una comunità molto solidale e spesso finisce che si aiutino tra di loro. È proprio un modo di impostare la vita diversamente.

– Quali sono secondo lei i punti deboli di questo mestiere?
Sicuramente un grande problema è che manca un albo e la professione quindi non viene riconosciuta. Bisognerebbe impegnarsi, c’è già chi lo fa, dovrei anche io fare di più. Perché è una cosa molto importante, è da lì che parte tutta una serie di disagi dovuta proprio alla mancanza di regolarizzazione. E questo poi implica anche un lavoro ben preciso di selezione di mediatori. Il mediatore non può essere un italiano, ma neanche semplicemente un figlio di immigrati in Italia, perchè per mediare non basta conoscere la lingua, bisogna conoscere la cultura del paese. Questo è molto importante. Bisogna lavorare molto anche sulla valorizzazione della professione. Si lavora a progetti e si è sempre precari, inoltre si è spesso sottopagati o si lavora come volontari. Questo sta alla base poi del malessere dei mediatori, che trovano frustrante questa situazione lavorativa.

– Quali sono i punti di forza?
La mediazione può dare tanto e dà tanto. Soprattutto per quanto riguarda la comunità brasiliana è importantissima la mediazione nelle scuole. I bimbi in Brasile stanno molto da soli, sono più autonomi rispetto ai bambini italiani. Qui questo aspetto culturale non è molto capito e spesso diventa un vero e proprio problema. Le maestre, preoccupandosi, a volte chiamano i servizi sociali e si complica tutto. Inoltre, venendo a mancare la rete familiare, spesso i brasiliani chiedono aiuto ad amici per gestire i figli. Quindi a volte a scuola il bambino viene portato a casa da qualcuno che non appartiene direttamente alla sua famiglia. E se questo è normale per i brasiliani, non lo è per gli italiani. In questo senso la mediazione può veramente aiutare tanto.

– Quali prospettive future immagina per la professione?

Bisogna partire dal riconoscere la figura del mediatore e dal tutelarlo. Noi mediatori non siamo tutelati, non abbiamo segreto professionale per esempio. Nei tribunali quando segui un percorso di violenza a volte ti ritrovi a non essere per niente tutelata e puoi finire vittima di violenza anche tu. Questo è un tema molto importante sul quale lavorare. Inoltre sarebbe bene formare mediatori di nazionalità che hanno bisogno di mediazione. Capire quale sia il vero fabbisogno di mediazione in una determinata area permetterebbe di focalizzare gli sforzi su determinati gruppi etnici. È importante concentrarsi su queste cose perchè è importante il lavoro del mediatore e nel mondo di oggi sarebbe impensabile lavorare senza la mediazione, tutti se ne sono resi conto. Come prospettiva futura mi auguro si possa creare una formazione standardizzata, che sia uguale su tutto il territorio nazionale. Partendo da questo sarà più facile arrivare a un pieno riconoscimento della professione.




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